Morto Giorgione nel 1510, Tiziano doveva dimostrarsi da un lato il suo erede e continuatore sul piano del colorismo, dall'altro doveva staccarsi dalla sua visione del mondo per affermarne una propria, possente ed energica.
Se per Giorgione l'uomo si poneva come uno degli elementi della natura, per Tiziano, e in questo sta l'artista cinquecentesco, l'uomo occupa la natura e la domina.
Nato presumibilmente attorno a 1488, a Pieve di Cadore, dove la famiglia Vercelli si era stabilita sin dal Duecento, Tiziano aveva iniziato giovanissimo la pratica della pittura a Venezia, prima nella bottega di Sebastiano Zuccato, poi presso i due Bellini e infine con Giorgione.
Con quest ultimo, nel 1508, aveva collaborato agli affreschi, ora praticamente scomparsi, del Fondato dei Tedeschi, e nel 1511 aveva eseguito a Padova tre pitture coi miracoli di Sant'Antonio, già cariche di quell'energia che doveva costituire una delle caratteristiche salienti dell'arte tizianesca, assieme alla concezione monumentale della figura che, a partire dal 1514-15, si precisa mirabilmente nei ritratti femminili, e in particolar modo nella Flora. Pienezza di forme che il colore fa palpitare, intensità di vita e di calore che finisce per destare un complesso di emozioni, dove non sono assenti tenerezza e malinconia; tale è il lirismo connaturato alle fanciulle tizianesche di quegli anni, che ritroviamo esaltato in un'atmosfera di pura armonia nell'Amor sacro e Amor profano, uno dei punti d'arrivo dell'arte classica cinquecentesca, affine ai Raffaello.
Invece torniamo ad un calore dei sentimenti di natura giorgionesca nel famoso Concerto, che del resto potrebbe essere attribuito a Giorgione, non fosse per la carica drammatica dei personaggi, indubbiamente tizianesca, e che sostanzia di sé i ritratti virili del periodo, dallo stupendo Uomo dal guanto (dove, fra l'altro, il pittore affronta la difficoltosa resa della mano guantata) alla sontuosa e possente effige del cardinale Ippolito de' Medici. In questi anni la fama di Tiziano è di portata internazionale, ed egli lavora con felicità: ne sono una prova le tre tele mitologiche eseguite per Alfonso I d'Este, Offerta a Venere, Baccanale, Bacco e Arianna.
Sono immagini di un paradiso terrestre, di paesaggi lussureggianti, di forme slanciate e ondulate dove il colorismo di Tiziano si accende di nuove fosforescenze.
Diventato nel 1533 pittore in titolo di Carlo V, che lo creerà Cavaliere dello Speron d'Oro e conte palatino, Tiziano negli anni seguenti si dedica per lo più al ritratto, dando vita ad una serie di capolavori che vanno dall'effige dell'imperatore al cosiddetto Giovane Inglese alla Bella, ad altre vivaci immagini femminili, culminanti nella Venere di Urbino, sontuoso e perlaceo nudo per cui posò la stessa modella della Bella, quadro che anticipa addirittura certe soluzioni ottocentesche.
Tuttavia l'attività ritrattistica raggiunge il proprio vertice col gruppo di papa Paolo III con i suoi nipoti: dipinta nel 1546, durante il soggiorno romano di Tiziano, la tela definita "la prima scena storica della pittura moderna", mette a nudo i sentimenti dei personaggi fieramente divisi per questioni politiche, e per quanto incompiuta palesa straordinari valori formali con la sinfonia dei colori.
A partire dal 1548, Tiziano è tutto preso da commesse per la Spagna e Fiandre, nonché dal successore di Carlo V, Filippo II, per il quale esegue una serie di tele a soggetto mitologico nelle quali primeggiano per la vibrazione luminosa, Danae e Diana e Atteone. In quest'ultima opera soprattutto, Tiziano già attua quelle audacie luministiche tipiche della sua produzione estrema, che annunciano il Tintoretto. In particolare affiora quella tecnica a macchie che si afferma in stupendi quadri religiosi: dalla Deposizione, al Martirio di San Lorenzo, dall'Annuncizione all'Incoronamento di spine, opera che dimostra quale misteriosa fratellanza vi sia a volte tra Tiziano e Rembrandt
Il continuo rinnovarsi dell'impegno e dell'arte di Tiziano ebbe fine a Venezia il 27 agosto del 1576: la laguna era devastata dalla peste, e i ladri, approfittandone, saccheggiarono la casa del pittore.
Non portarono però via la grande tela che aveva lasciato incompiuta, una Pietà destinata alla cappella della Crocifissione dei Frari, nella quale voleva essere sepolto.
In quell'opera prevale, dopo tante attestazioni di grandezza e felicità, la visione finale della morte, dell'abbandono.
Tiziano lascia dunque, come sua conclusiva testimonianza, un messaggio di dolore che raggiunge noi moderni con la stessa intensità che Michelangelo aveva conferito alla sua Pietà Rondanini.
Qui il pittore evoca se stesso quasi come un regale fantasma ombrato, con lo sguardo fisso lontano, oltre la vita reale. Si direbbe che sui toni smorzati il volto splende a sottolineare la sovranità dell'artista, in cui la vecchiaia si rivela come un'immensa carica di esperienza
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