I Depeche Mode da Basildon, nell'Essex, vicino Londra, sono stati esponenti di
spicco dell'elettropop, ma la loro carriera ha visto anche l'evoluzione da un
suono scanzonato e morbido ad atmosfere cupe e angosciate, con la svolta dei
primi anni 90.
La storia di una delle band-chiave del synth-pop britannico inizia nel
1977 quando Andrew Fletcher e Vince Clark incontrano Martin Gore e insieme
fondano i Composition Of Sound, nome che cambieranno qualche
mese dopo, quando i tre sentiranno la necessità di un frontman, rinvenuto in un
giovanotto che si cimenta in un locale con la cover di "Heroes" di Bowie.
La voce calda di Dave Gahan entra nel gruppo, che decide di abbandonare
definitivamente gli strumenti acustici per dedicarsi a tempo pieno all'uso dei sintetizzatori
e della musica elettronica. Il riferimento principale dei primi Depeche Mode
sono decisamente i Kraftwerk, e il successo riscosso durante le prime
esibizioni dal vivo fa cercare alla band una casa discografica che possa
pubblicare i loro primi lavori.
Quando li vede esibirsi in un locale con dei synth appoggiati su supporti di
fortuna, Daniel Miller della Mute si stupisce del valore della prima canzone ma
si aspetta che, come in tanti altri casi, si tratti della classica apertura col
botto di chi ha una sola carta da giocarsi. Quando però seguono un secondo
brano e poi altri ancora, allo stesso livello, i giochi sono fatti: nasce così
un sodalizio senza il quale la storia dei Depeche Mode non sarebbe quella che
conosciamo.
Nel 1981 viene dato alle stampe il primo singolo, "Dreaming Of Me",
prodotto dallo stesso Miller. Dopo l'uscita del secondo singolo, "New
Life", i Depeche Mode capiscono che l'ascesa al successo si sta concretizzando.
Lasciano dunque le loro occupazioni, dopo essersi esibiti alla famosa
trasmissione della Bbc "Top of the pops". È il terzo singolo a dare
lo slancio definitivo ai Mode, che piazzano "Just Can't Get Enough"
all'ottavo posto della chart inglese. Il brano è il primo classico
del gruppo, con una melodia molto semplice e accattivante (sarà anche uno degli
inni principali delle discoteche gay dei primi anni 80). Nell'ottobre del 1981
gli fa seguito il debutto ufficiale su album. Speak And Spell (1981) è una raccolta di canzonette elettroniche spudorate
e trascinanti. Dalle cantilene di "Boys Say Go!" e
"Puppets" alle più cadenzate "No Disco" e "Tora! Tora!
Tora!" è una parata di ritmiche gommose e ballabili, di synth scintillanti
come luci al neon, un condensato di pura melodia pop senza alcuna pretesa o
paludamento intellettualistico.
Vertice assoluto è la maestosa vertigine disco di "Photographic",
destinata a rimanere nelle orecchie di molti, tra cui i Bluvertigo di
"Altre forme di vita".
Dopo il tour avviene una rottura tra Vince Clark (che fonda gli Yazoo) e il
resto della band: il destino è incerto, così Martin Gore (già autore di due
brani del disco d'esordio) decide di assumersi il ruolo di songwriter.
Il risultato di questo salto nel buio è un gioiellino come A Broken Frame del
1982. La prima facciata è la più sorprendente, introdotta dalla battuta lenta e
dalle atmosfere solenni e romantiche di "Leave In Silence", prosegue
in un'atmosfera di densa malinconia autunnale, fino alle brume del singolo
"See You". Anche questo, per quanto accattivante, è pervaso da un
gusto per i climi notturni che prima era appena accennato, e che è in grado di
trasfigurarne il semplice testo adolescenziale in qualcosa di più intrigante.
Soprattutto, la voce di Gahan, qui già più profonda e baritonale, si sposa
perfettamente con questi nuovi ambienti sonori: sono nati i Depeche Mode come
li conosciamo.
La parte più innovativa dell'Lp sono però le sonorità dure e i ritmi pulsanti
di "Monument"e "My Secret Garden", nonché la romantica
corsa notturna dello strumentale "Nothing To Fear". Il secondo lato
mostra cose più simili ai Depeche Mode "leggeri" del primo album, come
"The Meaning Of Love", ma è destinato a chiudersi con un'altro inno
da spleen adolescenziale, la dolce sonata di "The Sun and the
Rainfall": il caldo della voce di Gahan e il freddo dell'elettronica,
l'amore romantico in vesti di plastica e latex, secondo i dettami degli anni
Ottanta.
La malinconia sospesa di questo disco non avrà seguito, perché la band, in
mezzo a una sequela di hit quasi ininterrotta (tra cui una ruffianissima
"Get The Balance Right") condurrà su album come Construction Time
Again, dell'83, e Some Great Reward, dell'anno seguente, un percorso di
continua evoluzione. Uno dei tratti fondamentali di questo processo è
l'inasprirsi continuo dell'elemento ritmico, con l'inserzione di martellanti drum
machine e di stranianti sonorità metalliche. Questi elementi provengono da
un gusto per i suoni "trovati" e per una pratica di
proto-campionamenti derivata dall'industrial. Fondamentale per questo è
l'ingresso in formazione di Alan Wilder nel ruolo di arrangiatore e artefice
del suono (oltre che autore di alcuni pezzi).
Brani come "Everything Counts" e "Master And Servant"
riescono a traghettare nell'ambito del singolo da discoteca queste innovazioni,
producendo un effetto di straniamento che è quello della migliore pop music:
sperimentazione sui suoni e ritornelli da cantare in coro. Il melodismo
travolgente degli esordi non è mai tradito o messo in discussione, ma è anzi
esaltato da suoni corposi, oscuri, sexy. Una formula d'oro per una band che
saprà far convivere successo e qualità artistica, alla faccia dei detrattori e
degli alfieri della classicità rock.
Some Great Reward presenta i cambiamenti ormai assimilati e un gruppo
ormai pronto a spiccare il salto. "Something To Do" mette subito in
campo un arrangiamento lussureggiante per accumulo di particolari e
stratificazioni di suoni, che è tutto il contrario della semplicità dei dischi
precedenti all'ingresso di Wilder. Questa scelta stilistica si rivela una
strada senza ritorno, caratterizzando l'intero Lp. Melodie di facile presa come
quelle di "People Are People" e "Master And Servant" si
trovano così immerse in una cornucopia di effetti di ogni genere, a volte anche
bizzarri, ad evidenza del senso di libertà provato da una band che si sta
avventurando in un campo tecnologico inesplorato, privo di punti di
riferimento.
Il coraggio paga e le porte del successo si aprono anche negli Usa. Agli
estremi dello spettro ormai variegato coperto dalla band sono altri due brani
chiave: il romanticismo soulful della ballata pianistica
"Somebody", eseguita in solitaria da Gore, e l'incubo percussivo di
una "Blasphemous Rumours" nera come la pece almeno fino alla
schiarita del ritornello: "I don't wanna start any blasphemous rumours/
but I think that God 's/ got a sick sense of humour/ and when I die/ I expect
to find Him laughing".
Negli anni Novanta il periodo dei primi quattro album ha subito un'opera di
"revisionismo storico" da parte di un Gore disposto a dichiarare che
"la vera storia dei Depeche Mode comincia con 'Black Celebration'" e
a escludere i vecchi pezzi dalle scalette dei concerti. Ora che l'elettronica è
diventata il suono predominante della musica pop non c'è più alcun motivo di
credere a queste parole, e non resta che considerare queste opere come parte di
una evoluzione stilistica in realtà piuttosto graduale.
In effetti è però innegabile che Black Celebration nel 1986 abbia
operato una svolta decisiva nella musica dei Depeche Mode. La voce di Gahan si
fa più cupa, ma mantiene il fascino che aveva mostrato in alcuni episodi dei
precedenti album. Le sonorità sono decisamente più mature, con Gore che ha
imparato a dosare le tastiere in modo da creare atmosfere oniriche (la title
track, "Stripped"), che non rinunciano a riffaggressivi ("A
Question Of Time") e a momenti di dolcezza ("Sometimes" e
"A Question Of Lust").
Dall'epico crescendo di "Black Clebration" fino alla desolazione di
"New Dress", l'album propone un suono stratificato e denso, che poco
ha ormai a che fare con l'elettropop e molto, come attitudine e sonorità, col rock
da stadio.
Il cuore del disco è la liturgia solenne di "Stripped", dove muri di
tastiere chiesastiche si trovano ad avvolgere la voce del Gahan più macho e sexy mai
sentito: sacro e profano, come nel blues, e la linea dei "Blasphemous
Rumours" è destinata a continuare.
Il momento "cupo" della band continua con Music For The Masses (1987),
che contiene due dei pezzi più belli dei Depeche Mode versione
"rock": "Never Let Me Down Again" e "Behind The
Wheel".
"Never Let Me Down Again" è un inno rock da
ascoltare in macchina a tutta velocità, esaltandosi ad ogni montare del refrain pianistico
sull'onda del denso corpo sonoro. "Behind The Wheel" riporta in
discoteca questo suono oscuro e fatalista, mentre la più cadenzata
"Strangelove" propone un Gahan ormai dannato nel suo abbandonarsi
agli eccessi e ai peccati della notte.
I Depeche Mode hanno ormai fatto loro il connubio tra paesaggi sonori desolati
e ritmi ballabili che già aveva reso forti certe produzioni di Moroder o
"Blue Monday" dei New Order, ma sono intenzionati a fare della
musica elettronica uno spettacolo da arene rock. Il culmine della loro
ambizione populista sarà raggiunto nell'epico concerto al Rose Bowl di Pasadena
immortalato da D.A. Pennebaker nel video "101".
Con quest'ultimo disco comincia intanto la fase dei video in bianco e nero dei
Mode, girati da Anton Corbjin (futuro regista del film "Control" su Ian
Curtis), decisamente suggestivi e di ispirazione dark. Martin Gore mette
un po' da parte i synth per dedicarsi alla chitarra elettrica, e la batteria si
insidia prepotente nei nuovi album.
I Depeche Mode sono un gruppo che vive di contrasti e dualismi, uno dei quali è
del tutto interno a Martin Gore. E' lui che scrive tutti quei testi pieni di
rese al peccato ("I give in to sin again and again") e slanci
purificatori ("I'm a firm believer"), tra amore sacro (poco, in
effetti) e passioni profane (in abbondanza). L'altro dualismo è al contrario
esterno: quello tra il Gore paroliere e il Gahan cantante, ma anche tra la voce
efebica del primo (si senta "Somebody") e quella "da uomo"
del secondo: l'innocenza e l'esperienza sono compresenti nella loro musica,
come in ogni animo umano.
Non tutto è però rose e fiori: Gahan ha infatti seri problemi di depressione e
di droga, e l'atmosfera fra i quattro componenti del gruppo è abbastanza tesa.
Tutto ciò confluisce in Violator (1990), che risulta comunque un
disco splendido, carico di emozioni e di tanti hit che frutteranno il
maggior successo di critica ai Depeche Mode. Si parla ovviamente di
"Personal Jesus" e "Enjoy The Silence", ma anche
"Policy Of Truth" e "World In My Eyes" danno nerbo a un
disco considerato da molti la vetta assoluta della band.
Qui a dominare è la produzione di Flood, capace di traghettare definitivamente
il gruppo fuori dalle stanze asfittiche dell'elettropop, approdando a un suono
di ampio respiro, dove strumenti suonati e
elettronica, calore e gelo convivono in simbiosi. Esemplare è la lineare
parabola di una "Enjoy The Silence" trascinata da un semplice riff di
chitarra e da un accompagnamento di lievi percussioni, in un ambiente
accogliente ed elegiaco, che è forse la migliore creazione dei Depeche Mode.
Altrettanto memorabile è "Personal Jesus", che parte con un
incalzante refrain di chitarra blues e si allarga alla fine a
sonorità elettroniche, sempre però mantenendo il suo ritmo tribale e sulfureo:
sarà reinterpretata perfino da Johnny Cash. Colpisce però, in mezzo a
tanti inni maestosi e roboanti, l'intimo pulsare ambient di una
"Waiting For The Night", dove Gore è mattatore.
Il momento d'oro della band inglese continua con un altro disco cult per
i fan, Songs Of Faith And Devotion (1993), ed è chiaro, non appena
esplode la violenza di "I Feel You", che si è ormai lontani anni luce
dal gruppo di "Just Can't Get Enough". Il disco è tutto giocato su
una dicotomia feroce: da una parte duri brani dove elettronica oscura e
chitarre affilate concorrono a creare ambientazioni soffocanti e diaboliche
("In Your Room", "Rush"), dall'altra atti di contrizione
dove si canta la voglia di redimersi attraverso la luce del gospel.
Quello che è cambiato, più ancora di un suono aggiornato alle più dure tendenze
anni 90 (i My Bloody Valentine non sono passati inosservati) è
l'atteggiamento della band, che ora sembra vivere sulla propria pelle i drammi
e i pentimenti di cui parla, in un gioco dove la maschera truce del rock sembra
trasformarsi in cruda realtà.
Il dubbio più inquietante è che la discesa di Gahan nel cliché del
maledettismo rock sia dovuta a un sospetto che egli nutre su se stesso: quello
di essere un falso. In fondo è una voce che canta le parole e le canzoni
di un altro, un sanguigno cantante rock alla guida di una band elettronica,
basata sulla riproduzione degli strumenti reali attraverso le macchine. Questo
la direbbe lunga sulle dinamiche psicologiche che possono sorgere all'interno
di un gruppo pop, ma anche sulla difficoltà di accettare l'elettronica come
forma di espressione fisica, autentica, anche da parte dei suoi stessi
facitori, di fronte a un rock che ha già ricevuto la sua giustificazione
intellettuale negli anni Settanta.